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mercoledì 5 febbraio 2014

Sbagliavo...


STONER
di John Williams

 
Stoner, americano di origini contadine, di cui percorriamo la vita attraverso i suoi studi, le due guerre mondiali, il matrimonio e il suo lavoro all'Università, sino alla morte, è senza dubbio un uomo per bene.

Retto, educato, premuroso; pervaso, tuttavia, da una sorta di torpore dell'anima che a volte può scambiarsi per indifferenza, che sovente è passività. Uno che fa la cosa giusta solo perché così gli è stato insegnato o che addirittura accetta di subire. Le cose attorno a lui accadono e, anche quando lui ne è il motore, appare quasi inconsapevole. E' irritante, Stoner, a volte. Fa venire voglia di strozzarlo, in particolare riguardo alle sue dinamiche familiari, sia nel rapporto con l'orribile moglie arpia, vuota e convenzionale, sia nei confronti della povera figlia, che ne resta vittima.

Questo pensavo all'inizio. E disprezzavo Stoner.

Mi dicevo che la bellezza del romanzo (che comunque mi ha incantata sin dalle prime righe) stava tutta nel modo in cui è stato scritto, che sotto certi aspetti fa pensare ad una fiaba. Non nel senso che si ricorre al “c'era una volta”, ma in riferimento a certi particolari che vengono forniti (il colore delle orecchie...), alle sensazioni posate che suscita la lettura, col suo tono carezzevole e dolce, che pare cullarti, estremamente lirico, ma a tratti meticolosa e oggettiva, capace di cogliere con contezza le sfumature più profonde dell'animo umano e del suo percorso di crescita e acquisita consapevolezza...

Pensavo che Stoner fosse un debole, ma a poco a poco ho realizzato che sbagliavo: è solo che ha un carattere fuori dagli schemi, con una moralità che gli impone decisioni diverse da quelle che sarebbero state le mie. Possiede una moralità che talvolta, suo malgrado, gli impone il silenzio o la rassegnazione, ma che in altre occasioni non gli consente compromessi, nemmeno quando sarebbero la scelta più logica e necessaria.

Se non erro, all'inizio de “La Signora Dalloway”, Virginia Woolf illustra quanto sia importante avere un nemico per dare mordente alla vita di una persona. Stoner ne ha due, di nemici: sua moglie e un suo collega dell'Università in cui insegna. Ma di per sé non sono sufficienti a conferire spessore alla sua vicenda, sono entrambi troppo meschini. No, ciò che lo salva (e lo condanna) è proprio il suo modo di essere. Un modo non facile di essere.

E sovente un dolore sottile trapela dalle pagine e si fa così soffocante da implicare l'interruzione della lettura, per evitare di sentirsi sopraffare.

C'è chi sostiene che la sua sia una storia banale scritta in modo straordinario.

In parte è vero, nel senso che Stoner vive, studia, lavora, si sposa, tradisce, e muore, proprio come chiunque altro. Però, non sono completamente convinta di questa verità: come fa una storia ad essere banale se il suo protagonista non lo è? E Stoner non lo è. Ha un'anima poetica e tragica insieme, con la tempra di un eroe intellettualmente onesto e sempre pronto ad affrontare onorevolmente il suo fato, quale esso sia, secondo la sua logica ferrea e peculiare. Certo, ci sono cose che non possiamo perdonargli (la questione della figlia), ma altre (l'epilogo della sua storia d'amore) che siamo costretti ad approvare, per quanto non ci vadano giù... Perché capiamo e ammiriamo la sua decisione. A suo modo Stoner è sempre fedele a se stesso e alla sua dignità di uomo.

Questo non possono sostenerlo in tanti, e ha una dimensione quasi titanica. Però, è vero, la sua vita è stata descritta in modo straordinario, o noi non ce ne saremmo potuti accorgere.

Anche se, terminato il romanzo, c'è una domanda che si insinua spontanea: che cosa resta, alla fin fine, della vita di ognuno se non si ha un biografo come Williams?

Nei miei momenti di pessimismo, temo che la risposta possa essere polvere.

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