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sabato 19 luglio 2014

Stereotipi.


LA CANTATRICE CALVA
di Eugène Ionesco
 

Dicesi “Teatro dell'Assurdo”.

E assurdo lo è davvero e senza confini, tra non-sense, dialoghi surreali (e deliziosi) e situazioni che non possiamo nemmeno affermare ci sfuggano di mano, perché, semplicemente, in mano non ci stanno. Non stanno da nessuna parte!

L'opera si legge in un istante, non solo perché è brevissima, ma perché ci rallegra e ci incuriosisce. E non ci basta mai.

Eppure, anche se non capiamo, non seguiamo, e ci sentiamo ribaltati in un modo di logica metafisica (o nessuna logica) non ci sentiamo irritare. Un po' perché lo sappiamo, capire non è sempre importante. Un po' perché tutto si combina ad arte, senza esagerare. O esagerando a tal punto che la “Cantatrice” diviene un mondo a sé e sentiamo di poterlo accettare così: rilassandoci e facendoci quattro risate.

Ma anche sentendoci solleticare qualcosa dentro, qualcosa di cerebrale, sotto pelle, di pruriginoso, che ci stuzzica in modo insolito e meraviglioso. E ci mette un po' a disagio, anche.

I protagonisti sono sei (e sono sostanzialmente intercambiabili) i coniugi Smith, i coniugi Martin, la cameriera e il capitano dei pompieri.

Sono i tipici borghesi, non hanno alcuna ragione d'essere, alcun senso, né tanto meno riescono a trovarlo: benché abbiamo un sacco di informazioni su di loro ci sembrano più un cumulo di abitudini che delle persone, lì fermi, cristallizzati nella routine.

E assolutamente normali, banali, ovvi.

Una casa normale, una famiglia normale, persone normali.

Stereotipi.

Come tali divengono allora metafora della condizione umana: umanità che agisce per forza di inerzia, in balia delle convenzioni, senza capire bene perché, priva di significato o di scopo.

Che parla tanto, ma di banalità, e di fatto non riesce a comunicare, a incontrarsi, nemmeno quando si è tutti lì, nella stessa stanza.

Dissacrante.

Da le leggere, più che da raccontare.

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