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mercoledì 10 dicembre 2014

La pazzia non ti protegge dalla sofferenza


QUALCUNO VOLO' SUL NIDO DEL CUCULO
di Ken Kesey
 
 
Se sei un malato di mente, a prescindere dal fatto che tu stia o meno in ospedale psichiatrico, significa che sei diverso da tutti, spesso in modo peculiare e magari persino pericoloso. Il romanzo, però, ci insegna che sei anche uguale agli altri perché la pazzia, purtroppo, non ti protegge dalla sofferenza, dalla tristezza, dai soprusi o dalla solitudine. Non importa se si è tanti, ognuno è un mondo a sé e non è semplice comunicare. E lo è ancora meno se il sistema (in qualunque senso lo si voglia intendere: dalla società in generale, che ha come primo obiettivo quello di sbarazzarsi di te, al microcosmo chiuso del manicomio, costituito da personale sadico e prepotente) si impegna a fiaccarti lo spirito, riducendo la tua dignità umana ad un'espressione vuota e te ad un numero.

Questo è esattamente quello che succede (da sempre, per quanto ne sappiamo) in un manicomio dell'Oregon, in cui l'infermiera Ratched, monumentale e sorridente, governa i pazienti con pugno di ferro, attuando una serie di prevaricazioni, sovente più psicologiche che fisiche, magari inducendoti infondati timori... Almeno finché qualcuno non si decide a contrastarla, sfidandola apertamente, e a lottare contro questo stato di cose, inducendo finalmente un po' di vita nell'ospedale psichiatrico, un po' di allegria, e soprattutto un po' di dignità e di riscatto umano. 
 
 Ken Kesey ritratto dal nostro vignettista

Il titolo, dunque, allude a questo perché il nido del cuculo è il manicomio, e un giorno qualcuno ci finì.. Ma non si limitò a vegetare lì dentro, ad obbedire e tacere: no, si decise (o gli fu inevitabile, per via del suo carattere) ad alzare la testa, e quindi a volarci sopra...

Il qualcuno è McMurphy, un irlandese dal sangue caldo, irrequieto, indomabile, che non potrà che opporsi alle regole castranti dell'ospedale psichiatrico, in cui egli stesso è ricoverato, in teoria in via provvisoria. Ed è grazie a lui che gli altri pazienti si ricorderanno di essere vivi, e dotati di volontà, desideri e pulsioni...

Ce lo racconta Bromden, l'io narrante, un colossale pellerossa che si finge sordo muto e che è detto “ramazza” perché viene regolarmente obbligato dal personale del manicomio a spazzare il pavimento...

E alla fine, nonostante la conclusione sia altamente drammatica, con un crescendo di tristezze, pur contenendo una stilla di speranza, ci chiediamo, chi preferiamo essere noi: se i normali o i pazzi...

2 commenti:

  1. Mi ha fatto piacere leggere questo post perchè mi ha fatto riflettere. Non mi ero mai soffermato a pensare che chi ha dei problemi psichici può soffrire o sentirsi solo esattamente come chi fortunatamente questi problemi non li ha. Se ci si pensa un pò invece questa è la prima conclusione a cui si arriva, ma, per l'appunto, ci si deve soffermare un pò su, altrimenti viene in automatico pensare che chi ha questi problemi è diverso, punto e basta. E invece no, per cui grazie di questo post che mi ha aperto gli occhi, su una cosa ovvia ma che faticavo a vedere

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  2. Ne sono lieta. Il merito, ovviamente, è di Kesey... E ovviamente ti consiglio la lettura del libro! Anche il film merita, ma ci sono alcuni particolari che nel romanzo si chiariscono meglio... Saluti e grazie!

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